MONDO GAY E DIALOGO

Che cosa significa essere gay
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MONDO GAY E DIALOGO

Messaggio da progettogayforum » martedì 9 aprile 2024, 12:24

Chiarisco subito il senso del titolo di questo post. Dopo 15 anni di attività di Progetto Gay, che mi hanno permesso di conoscere tantissimi gay e di mantenere con loro rapporti che durano da molti anni, sento il dovere di fermarmi a fare una riflessione per analizzare due punti specifici:

1) L’enorme variabilità dell’orizzonte gay e la conseguente impossibilità di caratterizzare un gay in base al suo essere gay.

2) Il senso del dialogo tra gay.

Partiamo dal primo punto. Dire che un ragazzo è gay individua solo il suo orientamento sessuale, nell’ambito di una personalità che ha una base genetico-epigenetica strettamente individuale e caratteristica soltanto di quella specifica persona, e ha una base educativa e relazionale assolutamente unica e irripetibile. Chi conosce un po’ più da vicino un gay e poi ne incontra un altro si rende conto in modo chiarissimo che quei due individui differiscono a livello psicologico non meno di quanto differiscono a livello fisico.

Ciascuno ha la sua storia, la sua personale esperienza, le sue paure, ciascuno subisce i suoi condizionamenti e si porta appresso un’esperienza che, in un modo o nell’altro, è stata e sarà determinante per le scelte individuali. Le differenze sono così marcate che accade spesso che un ragazzo gay si possa sentire più a suo agio con un amico etero o con una ragazza che con un altro gay, cioè, in buona sostanza, la crescita della rete di rapporti di un individuo è legata spesso a contenuti affettivi del tutto staccati dall’orientamento sessuale.

Le caratteristiche individuali sono così marcate che tra due gay è spesso diversissimo anche il modo di vivere la sessualità. Ovviamente questa estrema variabilità non è una caratteristica esclusiva dei gay, ma riguarda tutti i gruppi umani.

La conseguenza di quanto detto è immediata e diretta: è possibile parlare di esperienza gay solo a livello individuale, ogni tentativo di costruire un discorso sui gay (al plurale), a livello psicologico nasconde un pregiudizio: ossia che il tratto caratterizzante di qualsiasi gay sia proprio il suo essere gay. Un simile pregiudizio può derivare da valutazioni opposte della omosessualità in sé, cioè o dall’idea che l’omosessualità sia una caratteristica di per sé negativa da allontanare da sé e dal proprio gruppo di appartenenza, o, al contrario, che l’omosessualità sia un valore da rivendicare come una categoria intrinsecamente positiva. In realtà l’omosessualità è solo una caratteristica di una certa percentuale di individui che di per sé è neutra, non è né positiva né negativa, ma può portare le conseguenze più imprevedibili in dipendenza dalle condizioni in cui l’individuo cresce e si sviluppa.

Sui gay non si può scrivere un trattato, ma si può solo raccogliere un’antologia per illustrare la variabilità e la complessità delle posizioni individuali, lasciando al lettore la libertà di operare “la sua” sintesi, nella misura in cui lo riterrà possibile e opportuno.

Dopo avere usato acriticamente per anni l’espressione “mondo gay” sono arrivato a chiedermi se esiste realmente un mondo gay e la risposta alla quale sono pervenuto è molto parziale: un mondo gay esiste nella contrapposizione con il mondo etero. In un futuro auspicabile, e comunque lontano, in cui un ragazzo gay non percepirà più il suo essere gay come una situazione deteriore rispetto a quella di un ragazzo etero, e quindi verrà meno la contrapposizione con il mondo etero, sparirà anche il concetto di mondo gay, o forse l’idea di mondo gay perderà l’attuale connotazione di contrapposizione per assumere un significato di integrazione all’interno di un sottogruppo senza alcuna funzione difensiva.

Il contatto con le persone gay (proprio per non spersonalizzare il discorso) fa emergere nei miei interlocutori e anche in me il dubbio che il dialogo possa di fatto essere una pia illusione, nella quale si crede quasi per fede, da entrambe le parti. A che serve il dialogo, se si parte da punti di vista lontani e almeno all’apparenza inconciliabili? Sembra un tentativo di concretizzare l’impossibile. Ma questo deriva probabilmente dall’idea di dare al dialogo una finalità, quasi come fosse una specie di terapia, che però presupporrebbe una malattia o almeno un disagio. Il dialogo molto probabilmente mira a tenere la mente occupata e a dare l’illusione soggettiva ma confortante che tra due monadi ci possa anche essere una qualche forma di comunicazione. Cioè il dialogo, anche se praticamente inutile a livello relazionale, ha un senso perché chi in esso si impegna ne ricava una gratificazione, che in effetti è una autogratificazione dovuta soltanto alla convinzione “errata” di fare qualcosa che ha un senso. Con questo criterio si impongono spesso agli altri forme di apparente dialogo di tipo predicatorio che vengono tollerate dalla controparte che ne farebbe, se potesse, certamente a meno. Se poi l’autoinganno del dialogo fosse reciproco si potrebbe costruire una splendida “falsa relazione” in cui i partner sono semplicemente convinti di vivere uno scambio affettivo profondo, perché vedono la partecipazione “apparente” del partner.

Ma possono esistere forme di dialogo autentiche, non oggettivamente solipsistiche? Qui la risposta dipende dal che cosa si intende per autentiche. In un dialogo autentico, gli interlocutori dovrebbero impegnarsi a non recitare una parte e a dire quello che effettivamente pensano. Forse una forma di dialogo di questo genere può esistere, ma dire onestamente quello che si pensa, cosa comunque tutt’altro che comune, non comporta affatto che alla fine del dialogo qualcosa cambi effettivamente per uno o per l’altro interlocutore, in buona sostanza si può parlare “onestamente” per ore, ribadendo “onestamente” le proprie posizioni, senza cercare minimamente un terreno comune.

Proprio la ricerca di un terreno comune dovrebbe essere la base di un vero dialogo, ma questa ricerca molto spesso non è minimamente presa in considerazione da nessuna delle due parti. Il dialogo rischia di essere come l’araba fenice, “che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”, in pratica un mito salvifico che resta nell’iperuranio. Ma ammesso e non concesso che un dialogo sia possibile, a che cosa servirebbe? A formare una coppia? A formare un gruppo? A sfogare nelle parole le proprie frustrazioni nell’illusione di essere ascoltati o addirittura nella presunzione di poter fare qualcosa di buono per gli altri?

Quando si può effettivamente dire che c’è comunicazione? Questa ultima domanda è fondamentale. La comunicazione c’è quando i contenuti non contano, quando il discorso non è impegnato, non è premeditato, quando le parole possono anche non esserci. La comunicazione non puramente informativa o sociale deve avere una motivazione affettiva, che non è un interesse a capire qualcosa ma a capire qualcuno. L’interesse affettivo non si identifica necessariamente con l’interesse sessuale, ha contorni molto più larghi e indefiniti.

In un dialogo su base affettiva, che di per sé è labile e può durare lo spazio di un mattino, si riscontra la presenza di una sola regola: l’assoluta gratuità. Le aspettative sono fuori luogo, nulla si può pretendere, ciò che noi concediamo al partner non legittima alcuna pretesa di risposta da parte sua. Questo tipo di dialogo, assolutamente raro, è effimero, labile, proprio perché autenticamente umano, dato che su questa Terra nulla è stabile. Il dialogo è come il fiore della primavera, i fiori nella primavera sono tanti ma fragili, solo pochissimi di essi si trasformano in frutti.

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COPPIA GAY O FORSE AMICIZIA GAY

Messaggio da progettogayforum » giovedì 11 aprile 2024, 9:45

Caro Project,
ci conosciamo già da qualche anno, ho avuto modo di parlare con te nel 2020 e ne conservo un buon ricordo. Per inquadrare chi sono, forse ti ricorderai di uno che aveva appena lasciato il suo ragazzo, subito dopo un mini-viaggio “chiarificatore” fatto con lui nei giorni di capodanno.

Ho notato che nelle cose che scrivi, non nelle mail che pubblichi, ma proprio nei post tuoi, si avverte una lenta deriva in direzione pessimistica: l’incomunicabilità, la condizione del vecchio, ecc. ecc., e queste cose si possono capire benissimo, ma qualche volta scrivi cose che mi fanno pensare, per esempio dici che il dialogo tra gay è una pia illusione e lasci intendere che le coppie, tutte le coppie, sia etero che gay, sono fatte molto spesso, se non quasi sempre, di illusi, che credono di essere coinvolti in relazioni profonde ma che comunque pensano solo a se stessi. Magari questo capita pure, e magari è anche una cosa comune. Tempo fa anche io mi facevo portare dal pessimismo e mi fermavo a teorizzare la solitudine come vero rimedio per tutti i problemi affettivi, ma circa un mese fa ho rivisto per caso il mio ex, quello che avevo lasciato a gennaio del 2020, uno dignitoso, questo è innegabile, col quale c’era un certo rispetto reciproco. Ci eravamo separati di comune accordo, non per cercare altre storie ma perché la nostra in fondo di farfalle nello stomaco non ne aveva proprio. Allora pensavamo che se non ci sono più le farfalle nello stomaco la storia non ha più senso e tanto vale lasciarsi.

Quando ci siamo lasciati, per me non è stato un vero trauma, ma nemmeno una soddisfazione, era semplicemente la cosa che mi sembrava si dovesse fare, e penso anche per lui sia stato più o meno lo stesso, poi ci siamo persi di vista per quattro anni. In questi quattro anni non ci sono stati fatti sostanzialmente nuovi, non abbiamo cercato un altro ragazzo né lui né io, adesso abbiamo quattro anni in più, non so se dire più rassegnazione, ma non credo si tratti di questo. Certo l’idea di andare a caccia di ragazzi non c’è più, ammesso che ci fosse mai stata veramente. Siamo entrambi tipi tranquilli, non depressi per il fatto di non avere un ragazzo, cioè non convinti che avere un ragazzo sia l’obiettivo della vita, ma nemmeno portati a buttarsi nella prima avventura che capita. Lui ha continuato a lavorare e a vedere gli amici, esattamente come faceva prima, e più o meno io ho fatto lo stesso.

Mi sono chiesto se in questi anni lui mi sia veramente mancato, e onestamente penso di no, però rivederlo non è stato indifferente, abbiamo parlato a lungo e siamo anche stati zitti a lungo, poi siamo andati a prendere una pizza insieme, niente di diverso, proprio come fanno due amici, perché noi siamo due amici, e posso dire che sono stato bene. Lui non è cambiato di una virgola, è sempre garbato, rispettoso, a modo suo anche affettuoso. Il primo giorno è passato così. Stare con lui, dopo tutto, è stato gradevole, e ci siamo rivisti qualche volta anche nei giorni successivi.

Non so se tra noi ci sarà di nuovo sesso, come succedeva prima, se fosse non direi certamente di no, ma se non succedesse mi andrebbe bene lo stesso. Il sesso è un’eventualità possibile, non è né un obbligo né l’unica cosa che dà senso a un rapporto. Capisco che può sembrare il discorso della volpe e l’uva, ma è proprio quello che penso. La sua presenza la sento e non è paragonabile a quella di altre persone. Lui c’è per me.

Comunque niente illusioni e niente estrapolazioni, tutto deve essere valutato su quello che si prova realmente: non mi sento come se stessi ricominciando la nostra storia perché è una storia diversa, anche se i protagonisti sono gli stessi. Non ci sono le farfalle nello stomaco ma sapere che lui c’è è gradevole.

Se fosse sensato appiccicarsi per forza delle etichette mi chiederei se in fondo siamo “solo” amici o siamo veramente una “strana” coppia che sta scoprendo di nuovo il piacere di stare insieme, ok, con livelli di coinvolgimento sessuale molto relativi, se non proprio assenti, ma con delle affinità di fondo delle quali anni fa non avevamo nemmeno capito l’importanza. Non guardo la nostra relazione in prospettiva, cioè non mi chiedo dove andrà a finire e non cerco affatto di accelerare i tempi, sarà quello che sarà, ma penso che una presenza come la sua valga molto più della solitudine come medicina dell’anima, e poi, se la cosa è reciproca, a qualunque livello, perché la si dovrebbe mettere da parte?

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