GAY TRA CONFLITTI DI COPPIA E RAPPORTI DI UTILITA’

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GAY TRA CONFLITTI DI COPPIA E RAPPORTI DI UTILITA’

Messaggio da progettogayforum » domenica 6 dicembre 2020, 12:44

C’è una domanda, a proposito delle relazioni gay di coppia, la cui risposta si dà per scontata ma non lo è affatto: “Che significa dire che una relazione gay finisce?” Se è ovvio pensare che una storia possa considerarsi finita quando entrambi i partner la ritengono ormai un fatto del passato, che non può riprendere a vivere nel presente, non è affatto scontato che una storia sia finita, cioè non produca più effetti, quando uno solo dei due partner pensa che quella storia appartenga definitivamente al passato, mentre l’altro partner la considera ancora viva e coinvolgente, e ancora meno si dovrebbe pensare che una storia sia finita quando, pur giungendo alla decisione di separarsi, entrambi i partner continuano a sentirsi in qualche modo coinvolti, perché anche questo accade e non così raramente.
I rapporti affettivi tra due persone si vivono a due distinti livelli, il primo e quello delle parole e dei sentimenti “dichiarati”, il secondo è quello del non detto, in cui la dimensione della comunicazione si esplica attraverso mezzi molto più sottili delle parole come il tono della voce, gli atteggiamenti del viso, il contatto fisico, gli atteggiamenti del corpo, il non chiudere rapidamente una telefonata, il cercare, almeno in alcuni momenti, di non arrivare a una rottura definitiva pur avendone l’opportunità, ecc. ecc.. In effetti è molto raro che i sentimenti dichiarati e quelli realmente provati coincidano. L’espressione esplicita dei sentimenti attraverso le parole è necessariamente legata alle categorie della logica, deve cioè avere una sua coerenza e deve procedere attraverso argomentazioni razionali strutturate che abbiano almeno l’apparenza di un discorso logico. Spesso, quando uno dei partner della coppia dice all’altro: “Noi dobbiamo parlare”, con queste parole preannuncia un chiarimento ritenuto indispensabile, una specie di resa dei conti, che potrebbe definire la conclusione del rapporto di coppia. Purtroppo spessissimo le parole non servono soltanto a prendere atto di una situazione di crisi già presente, anche se non dichiarata, ma sono esse stesse la causa o il catalizzatore della crisi, perché le parole suonano come giudizi, come preclusioni, come preconcetti, come esclusioni e quindi possono ferire. La comunicazione affettiva senza l’uso delle parole e molto più diretta ed efficace proprio perché evita le mediazioni linguistiche e non suona mai come un giudizio, un rifiuto o una preclusione.
I discorsi espliciti a proposito dei sentimenti dovrebbero essere una rappresentazione dei sentimenti che li renda visibili senza deformarli, ma spesso i discorsi sui sentimenti hanno una forte autonomia rispetto ai sentimenti che dovrebbero rappresentare e ne forniscono un’immagine molto schematica, e non raramente fortemente deformata, e in questo modo inducono spesso la controparte a rispondere con toni speculari o con silenzi che suonano come forme di perplessità, di disinteresse o di distacco. In questo modo la dialettica puramente verbale e formalmente logica finisce per sostituirsi ai sentimenti e per essere predominante e irrefrenabile. Purtroppo i sentimenti profondi non arrivano quasi mai a manifestarsi in parole, anche perché sarebbero parole spesso incerte, ondivaghe, oscillanti tra l’entusiastico e il disincantato e quindi si preferisce ometterle per affidarsi ad uno schema comunicativo molto più collaudato.
Nella comunicazione puramente verbale si assume inevitabilmente un ruolo. Va detto chiaramente che in una dimensione limitata alla comunicazione sociale, in cui in pratica non ci sono coinvolgimenti affettivi profondi, l’assunzione di un ruolo, con maggiori o minori aperture ad una dimensione più personale, può andare benissimo. In questi rapporti il problema di rompere un vincolo affettivo forte non si pone proprio, ma nell’ambito della vita di coppia, per quanto essa rilassata sia, cioè nell’ambito di una relazione che ha una componente affettiva forte, il problema della comunicazione esplicita è fondamentale, perché attraverso una comunicazione esplicita si definisce e si inquadra il rapporto in questa o in quella categoria e si dichiara il proprio livello di coinvolgimento. Tipico è il caso del voler definire si si tratta di essere una coppia o di essere semplicemente amici, e nel caso che si concordi sul fatto che si è una coppia, si passi poi a definire se si tratta di una coppia chiusa o di una coppia aperta. La riduzione del rapporto entro schemi astratti è di per sé riduttiva e pericolosa. Ovviamente se la comunicazione avvenisse attraverso canali non verbali la logica classificatoria astratta sarebbe del tutto assente e i pericoli ad essa connessi sarebbero automaticamente evitati.
La comunicazione esplicita di coppia può diventare uno dei momenti critici del rapporto perché, quando manca una comunicazione “affettiva” e non verbale, che sarebbe fondamentale, la comunicazione è integralmente affidata alle parole e si carica inevitabilmente di ambiguità. Cerco di spiegarmi con un esempio. Poniamo che due ragazzi che sono stati in coppia per un certo tempo siano costretti a separarsi per un lungo periodo, tra loro la comunicazione non verbale (il tono della voce, gli scambi di sguardi, il contatto fisico) diventa impossibile e tutto è affidato alle parole. Finché è possibile almeno il contatto telefonico e il tono della voce resta ancora un elemento comunicativo fondamentale, la dittatura del linguaggio astratto è stemperata e l’attenzione alle parole e al loro uso resta ancora relativa, anche se comunque molto più forte di quanto non sia quando è possibile una comunicazione affettiva non verbale. Ma se il contatto si dovesse limitare soltanto allo scambio di lettere (o di email) l’attenzione alle parole e al loro uso diventerebbe maniacale, perché le parole scritte sarebbero l’unico mezzo di comunicazione e ad esse soltanto competerebbe il ruolo di essere mediatrici dei sentimenti.
Negli scambi epistolari e nelle chat scritte, la richiesta di puntualizzazioni, di spiegazioni e di motivazioni è molto frequente proprio perché la comunicazione è affidata solo alle parole e le eventuali rassicurazioni possono venire solo dalla parole. Ogni deviazione dall’argomento di maggiore interesse per uno dei due interlocutori viene interpretato come un segno di disinteresse.
Oggi, con le video chiamate, anche le comunicazioni a distanza possono mantenere una certa quota di comunicazione non verbale, ma il telefono e spesso anche i social e gli sms sono quasi gli unici mezzi di comunicazione standard. Usando questi mezzi è molto difficile esprimere i sentimenti e il rischio di fraintendimenti è particolarmente alto.
Ovviamente esprimere i sentimenti in parole significa ridurli a concetti, cioè ad astrazioni. Non bisogna mai dimenticare che gli animali, che non usano un linguaggio verbale, cioè concettuale e astratto, riescono ciò non di meno a manifestare i propri sentimenti con gli atteggiamenti del corpo che essi usano anche come mezzo di efficacissima comunicazione sociale. Comunicare unendo al linguaggio non verbale quello verbale arricchisce la comunicazione e la rende possibile anche in settori molto astratti in cui è impossibile usare un linguaggio non verbale, ma comunicare sostituendo il linguaggio verbale a quello non verbale significa riportare i sentimenti a categorie logiche e sostanzialmente snaturarli.
Ci sono settori in cui si impiegano categorie concettuali precise e astratte, in questi settori le codifiche del linguaggio sono standard. La parola cerchio, una volta che se ne è data una definizione, assume per tutti lo stesso significato, proprio perché risponde a una precisa definizione, ma la parola amore è di per sé indefinibile e suscita in chi l’ascolta i contenuti e le reazioni più varie e divergenti, proprio perché non se ne può dare una definizione e gli ambiti di significato che ciascuno attribuisce a quella parola sono legati in modo profondo alla personalità e al vissuto individuale. In queste condizioni le possibilità di fraintendimento sono enormi.
Le possibilità di non capirsi sono insite in ogni parola e in ogni comportamento, per superarle bisognerebbe essere capaci di immedesimarsi nell’altra persona e di far proprio il patrimonio di esperienze, di frustrazioni e di gratificazioni che hanno definito il linguaggio di quella persona. Le differenze di linguaggio possono derivare da differenze di età, di condizione sociale, di ruolo, ma anche da una miriade di fattori imponderabili ma ciò nonostante determinanti, come le esperienze affettive pregresse, le letture e gli interessi culturali e politici.
Purtroppo il dialogo diventa spesso un confronto, non nel senso di condivisione di esperienze ma di contrapposizione, si trasforma cioè in un arroccamento sulle proprie posizioni e in uno strenuo tentativo di difenderle contro quelle dell’altra persona, con una specie di chiusura pregiudiziale che è incompatibile con qualsiasi forma di dialogo-condivisione. In genere gli irrigidimenti e le chiusure sono simmetriche e si finisce per trincerarsi in posizioni di stallo dalle quali sarebbe possibile uscire soltanto facendo un passo indietro che nessuno dei due vuole fare. Lo stallo e l’interruzione del dialogo sono la premessa della rottura formale, alla quale non è però detto che corrisponda una rottura sostanziale, perché il confronto attraverso le parole è una cosa e i sentimenti sono un’altra cosa.
Il dialogo verbale inteso come confronto-contrapposizione può anche finire con una tregua, ossia con l’accettazione da entrambe le parti di alcune condizioni ritenute “condicio sine qua non” per la prosecuzione del rapporto. Il gergo militare che si usa in queste condizioni (confronto come contrapposizione, tregua, condizioni di tregua, triceramento) è indicativo di un clima di conflitto irrisolto che, alla minima inosservanza delle condizioni di tregua, potrebbe di nuovo diventare un conflitto aperto.
Anche i rapporti affettivi più importanti possono avere aspetti conflittuali e la tendenza a prevalere sull’altro non è mai del tutto sopita, ma il prevalere di uno sull’altro, che appare ad uno dei due come una vittoria, appare all’altro come un “dover cedere”, o come un cedere senza il piacere di cedere, tipico delle relazioni amorose, ma finendo per accettare una forzatura e questo mette in crisi l’equilibrio della coppia gay che è fondato sulla parità.
Perché è così facile finire in situazioni di conflitto? E che cosa si può fare per ridurre il rischio che una relazione affettiva diventi conflittuale?
Proverò a rispondere subito alla prima delle due domande. Il conflitto nasce quando viene meno il rapporto di collaborazione. Si collabora per il raggiungimento di un fine comune realmente condiviso, Quando all’interno di una coppia manca un progetto comune da realizzare, ciascuno dei due partner tende a perseguire le sue finalità, anche se non sono condivise dal compagno, cioè si comporta come singolo e non più come componente di una coppia. Non si deve credere che si passi facilmente dall’avere un obiettivo comune al perseguire ciascuno le proprie finalità, molto spesso l’obiettivo comune manca fin dall’inizio e semplicemente ci si illude di avere un obiettivo comune con un’altra persona e si è portati a creare un rapporto di coppia o meglio di pseudo-coppia basato su ciò che si ritiene condiviso ma non lo è, poi col tempo, ci si rende conto che la condivisione era puramente illusoria e che, pur formalmente in coppia, i due partner continuavano ad essere affettivamente e mentalmente single, ossia continuavano a perseguire ciascuno il proprio progetto di vita, tentando di coinvolgere l’altro, ma evitando di rinunciare al proprio personale progetto per costruirne uno nuovo di coppia.
Un elemento caratteristico delle relazioni conflittuali è la ricerca delle “colpe dell’altro” alle quali imputare il fallimento della relazione. Anche qui si ripresenta l’uso della terminologia bellica, la ricerca delle “colpe dell’altro” equivale alla ricerca delle violazioni reali o presunte delle condizioni di tregua che possano giustificare un attacco su larga scala. Nessuno vuole per sé il ruolo poco nobile dell’aggressore e tutti vogliono apparire come vittime di un’aggressione che sono costrette a reagire per ristabilire l’ordine e la giustizia violata dalla controparte.
Ci sono le colpe recenti, che costituiscono il vero “casus belli” e ci sono le colpe storiche che erano state tenute sotto silenzio per molto tempo e che vengono richiamate alla memoria per corroborare la propria condizione di aggredito costretto dall’aggressore ad una strategia difensiva.
Nelle relazioni di coppia che funzionano, quando ci sono dei conflitti che vengono poi superati, si procede ad una vera amnistia generale e reciproca, cioè ci si perdona reciprocamente il passato e si decide di metterci una pietra sopra per ricominciare da capo evitando che le vecchie incomprensioni, ormai superate, condizionino il futuro della relazione che si vuole ricostruire su basi più forti.
Le relazioni diventano cronicamente conflittuali quando non c’è mai stato o cessa di esserci un rapporto affettivo forte. In ogni altro caso la relazione si può rifondare, ma se manca un rapporto affettivo forte la conflittualità irrevocabile è la regola.
Vengo ora alla seconda domanda: “Che cosa si può fare per ridurre il rischio che una relazione affettiva diventi conflittuale?” La risposta è connessa alla risposta data alla prima domanda: per ridurre il rischio che una relazione diventi conflittuale si può solo cercare di rafforzarne la dimensione affettiva, cooperativa, di collaborazione su obiettivi realmente condivisi. Una relazione affettiva è di per sé una relazione che comporta una qualche forma di vita comune, anche parziale, anche limitata, anche simbolica ma affettivamente partecipata da entrambi, e qui il discorso deve essere allargato ad un altro concetto, quello di “rapporto di utilità reciproca”, che non è un rapporto di coppia anche se può assumerne le sembianze.
Nella vita sociale capita spesso che si creino rapporti di interazione finalizzati ad uno scambio di favori, la regola di questi rapporti è quella del rapporto commerciale: prestazione contro prestazione, o “do ut des”, Molte volte si creano rapporti di questo genere finalizzati a trovare un partner sessuale. Sia ben chiaro, quando la cosa è esplicita e dichiarata, costituisce una specie di contratto tra adulti consenzienti sul quale c’è ben poco da eccepire, ma non si tratta di rapporti di coppia, perché non c’è una vera condivisione di vita, non ci sono obiettivi comuni e i due partner perseguono ciascuno il proprio utile.
È molto difficile distinguere i rapporti di utilità reciproca dai rapporti di coppia, perché entrambi possono essere a tempo indeterminato e perché entrambi possono diventare conflittuali. La differenza sta nella dimensione affettiva. Sarebbe però una indebita semplificazione dire che mentre i rapporti di coppia sono costruiti su una dimensione affettiva forte, i rapporti di utilità ne sono privi, in effetti tra le due categorie esiste una infinità varietà di gradazioni intermedie in cui i due aspetti, quello affettivo e quello di utilità, si mescolano in vario modo e grado. Se però al venir meno della possibilità di ricavare un utile il rapporto stesso viene meno, certamente si può dire che l’utilità era la vera motivazione del rapporto. In altri termini il rapporto di utilità è strumentale ed egoistico, mentre il rapporto affettivo è incondizionato e sostanzialmente altruistico.

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