GAY E STEREOTIPI FRAGILI

Che cosa significa essere gay
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GAY E STEREOTIPI FRAGILI

Messaggio da progettogayforum » venerdì 21 ottobre 2022, 8:34

Tutte le forme di sessualità e di affettività istituzionalizzata hanno generato dei modelli o meglio degli stereotipi che incarnano la “dimensione ideale” di quelle forme di sessualità e di affettività. Il matrimonio, basato sulla monogamia stretta e sulla fedeltà che dura una vita, ha generato i suoi miti, che hanno creato molte illusioni e altrettante disillusioni. Una sorte più o meno analoga è toccata anche ai modelli di comportamento gay di tipo quasi-matrimoniale. Ancora oggi questi modelli costituiscono il banco di prova della maturità affettiva delle persone, nel senso che ci si può considerare veramente maturi sotto il profilo affettivo solo quando si è in grado di andare oltre i modelli, evitando di ridurre o di cercare di ridurre la propria affettività o quella altrui sotto dei denominatori comuni tanto generali quanto poco realistici.

Uno degli stereotipi fragili, anche se tuttora condizionanti, è quello dell’unicità dei rapporti affettivi, secondo il quale il proprio partner è l’unica persona con la quale ha senso costruire un rapporto affettivo-sessuale. Non si tratta di sola monogamia ma addirittura di mono-affettività teorizzata come un valore, il valore dell’esclusività. Dietro questo stereotipo c’è ancora un modello di tipo quasi-matrimoniale, c’è una valorizzazione della gelosia e della possessività quasi fossero forme d’amore. Espressioni come “la scelta del partner” nascondono dietro l’apparenza di una scelta la rinuncia a tutto ciò che possa mettere in crisi la monogamia e la stessa mono-affettività: amare il proprio partner, stando a questa teorizzazione, significa rinunciare ad amare chiunque altro a qualsiasi livello. Quando una scelta comporta una rinuncia e quella rinuncia comincia diventare consapevole, quella scelta non è più vissuta con entusiasmo ma come una limitazione, come un vendere la propria libertà affettiva in cambio dell’amore del partner, ma spesso l’amore del partner resta soltanto un modo di dire e la rinuncia non ha alcuna contropartita reale e resta una rinuncia di principio, un vincolo accettato inconsapevolmente e divenuto via via sempre meno sopportabile con l’andare del tempo.

È possibile amare più persone contemporaneamente? Anche se le vere risposte a questa domanda dipendono strettamente dall’esperienza individuale, la risposta automatica più comune è no! Ma quando si vanno a cercare le ragioni di quel no risulta evidente che il no deriva solo da una visione mitica e astratta dei rapporti affettivi, in pratica da modelli assimilati e accettati perché hanno un’apparenza rassicurante: la favola è più bella della realtà e per questo diventa il modello da seguire. Tra l’altro si tratta anche di un modello molto semplice, di tipo sì/no.
È certamente molto più semplice organizzare la propria vita intorno ad un unico centro piuttosto che coltivare due o più rapporti affettivi importanti, ma questo non significa che far convivere più relazioni affettive sia impossibile.

Una scelta senza rinunce cioè una forma di dedizione affettiva non esclusiva, per essere stabile, richiede non soltanto la consapevolezza e l’accettazione da parte di chi opera quella scelta (che non è propriamente una scelta nel senso comune del termine proprio perché non è esclusiva), ma richiede anche e forse soprattutto l’accettazione da parte della persona scelta, che potrebbe dare per scontato che ogni scelta debba essere esclusiva e potrebbe quindi scoprire soltanto in un secondo momento di essere stata scelta con un criterio non esclusivo. Naturalmente le scelte possono essere anche parzialmente esclusive, ossia possono riconoscere alla persona scelta l’esclusività in alcuni settori (scelta monogamica ma non mono-affettiva), ma i confini dell’esclusività sono quanto mai fluidi e stabilire o pretendere di stabilire regole quasi contrattuali ha di fatto poco senso.

Accade talvolta, e non di rado, che la persona scelta accetti “a parole” la non esclusività della scelta ma ne dia comunque per scontata l’esclusività. Tipico è il caso di affermazioni come la seguente: “Certo che potrai prenderti tutte le libertà che vorrai, ma so che non lo farai!” Questa affermazione non è certamente un’accettazione della non esclusività delle scelte e contiene anzi una sostanziale pretesa di esclusività. Il conflitto che ne può derivare non è di carattere teorico e si manifesta solo quando la persona scelta si rende conto che i propri progetti sono ostacolati o ritardati dalla necessità di coordinarli con altri di cui si dava per scontato che non si dovesse tenere conto. Esempio tipico di questa situazione si trova nella frase: ”Non vuoi uscire con me perché preferisci uscire con lui/lei…”. La necessità di coordinamento tra due distinti rapporti affettivi da parte di uno dei due partner può essere vissuta dall’altro come un modo di creare una gerarchia tra quei rapporti affettivi: “Se preferisci uscire con lui/lei, vuol dire che io sono di serie B!” Una frase del genere, pronunciata o trattenuta, indica il nascere di un risentimento e quindi una sostanziale frattura nel rapporto di coppia dovuta alla gelosia, ossia alla non accettazione di scelte non esclusive.

Va tenuto presente che rivendicare per sé il diritto a una scelta non esclusiva non significa automaticamente riconoscere un analogo diritto al partner. Chi dice: “Io ti voglio bene ma non mi sento vincolato” non necessariamente accetta di essere scelto dal partner in modo non esclusivo. La tendenza a riservare a sé un livello di libertà superiore a quello che si intende accordare al partner è una cosa piuttosto comune.

Ma ritorniamo alla frustrazione che deriva dal ritenere che il partner ci consideri un’opzione di serie B. Dietro questa frustrazione c’è il timore di essere abbandonati, trascurati o, semplicemente, di non essere veramente amati, timore che, nel tempo, può dimostrarsi fondato ma potrebbe essere e talvolta è oggettivamente infondato e, nonostante tutto, può portare a stati di vera sofferenza, se manca o è carente il dialogo col partner. Uno dei problemi più seri della vita di coppia sta proprio nell’assenza di dialogo e di confronto, che di fatto riduce la vita di coppia ad una forma, ciascuno dei due partner “immagina” i pensieri dell’altro ma non li conosce, li presuppone, ovviamente sulla base dei propri sentimenti e vive quindi in modo sostanzialmente unilaterale ciò che gli appare un rapporto di coppia ma è soprattutto una proiezione dei suoi desideri e delle sue paure. In sostanza non si tratta di una vera coppia ma di due distinte monadi, ciascuna delle quali si è costruita una sua immagine dell’altra: ciò che appare come coppia che, come tale, presupporrebbe unità e interazione, è di fatto autoreferenzialità e distanza.

Una scelta non esclusiva non si valuta a partire da ciò che appare dall’esterno ma dal grado di soddisfazione e di gratificazione che produce a livello individuale nel lungo periodo. Una relazione non esclusiva, in genere, non porta alla convivenza di tipo quasi-matrimoniale e neppure a forme di interazione troppo strette o troppo frequenti e proprio per questo potrebbe apparire meno gratificante di una relazione esclusiva, ma lascia ai partner la possibilità di avere ciascuno un mondo affettivo strettamente privato, del quale si può anche e legittimamente non parlare con l’altro o gli altri partner, se tutto questo è realmente condiviso e accettato. Questo discorso potrebbe apparire dirompente e dissacrante, lontanissimo come è dal mito di Cenerentola e della Bella Addormentata, ma ha una sua concretezza e anche una sua stabilità. Non sto cercando di accreditare un modello alternativo ma solo di mettere in evidenza che il modello della monogamia e della mono-affettività non è il paradigma assoluto della vita affettiva e, in certi casi, se assunto come modello, può provocare danni e sofferenza. La vita affettiva ha una dimensione strettamente individuale e tutti i tentativi di codificarla sulla base di regole più o meno generali, sono destinati a scontrarsi con una realtà che rifugge da regole e classificazioni.

Mi capita spesso di sentirmi fare una domanda: “Ma questo comportamento è normale?” La preoccupazione della normalità dei propri comportamenti e quindi della propria normalità deriva direttamente dalla interiorizzazione di codici di comportamento teorici e dalla presupposta necessità della omologazione. Il dubbio sulla normalità dei comportamenti non monogamici o non mono-affettivi è ancora piuttosto comune. Va sottolineato che in ambito gay, più o meno consapevolmente, si tende a conformarsi a sistemi di valori e a norme di comportamento che non sono state create per i gay. Intendo dire che alle coppie gay, che salvo rare eccezioni, non hanno figli, si tende ad applicare in modo automatico concetti di tipo quasi-matrimoniale che hanno un senso per le coppie etero con figli ma certamente ne hanno o ne avrebbero uno molto diverso per le coppie gay senza figli. La presenza o assenza dei figli, più della distinzione tra etero e omosessualità, rappresenta un discrimine oggettivo tra condizioni sostanzialmente diverse. Pensare al mondo gay come una realtà perfettamente speculare rispetto al mondo etero significa trascurare l’oggettiva differenza delle condizioni.

I pregiudizi nei confronti delle relazioni non esclusive sono comuni e difficili da superare proprio perché hanno una base assiomatica, in buona sostanza si assume per principio che le relazioni non esclusive altro non siano che il risultato di un’accettazione quasi obbligata, da una delle due parti, almeno, di un rapporto sostanzialmente insoddisfacente e comunque difettoso o meglio mancante degli elementi costitutivi di una vera relazione. Tuttavia misurare il peso effettivo di una relazione all’interno della vita di un individuo non è solo arduo ma addirittura impossibile, perché in queste cose la soggettività domina incontrastata il campo. Non è la relazione “socialmente visibile” che determina il livello di gratificazione ma la partecipazione autentica del partner, cioè la condivisione sostanziale di uno spazio affettivo comune tra due individui, che si sentono entrambi profondamente coinvolti uno dall’altro.

Se un parametro si può considerare oggettivamente importante nel valutare il peso di una relazione, quel parametro è il tempo, ossia la durata della relazione. Una relazione non effettivamente condivisa è destinata a durare poco. Non si può certamente assumere a parametro di valutazione la tranquillità del rapporto, ossia l’assenza di litigi e di incomprensioni. La tranquillità è spesso sinonimo non di armonia ma di quieto vivere e sostanzialmente di adattamento reciproco. Il confronto, anche con toni alti, se non è seguito da una vera rottura della relazione, non fa che rinsaldare il rapporto proprio perché dissipa il timore che i toni alti possano preludere alla fine del rapporto.

Tra gli stereotipi più tipici relativi al rapporto di coppia un posto di tutto rilievo spetta all’idea che la convivenza sia l’anima e la finalità stessa del rapporto e che il tempo trascorso insieme sia una misura attendibile della solidità di un rapporto. In questa ottica i rapporti diluiti o discontinui sono interpretati come rapporti evanescenti prossimi a dissolversi nel nulla, mentre la convivenza quasi matrimoniale è vista come la caratteristica strutturale e la finalità stessa del rapporto. Nessuno intende sostenere l’idea che i rapporti diluiti e discontinui rappresentino l’ideale da perseguire, ma è necessario rendersi conto che non sono affatto rari i casi in cui questi rapporti resistono al passare del tempo e non solo non si logorano ma si consolidano nel tempo, e d’altra parte non sono neppure rari i casi in cui le convivenze portano a conflitti laceranti o a forme di adattamento che alimentano risentimenti e rivendicazioni di libertà sistematicamente soffocate per ragioni di mera opportunità economica.

L’affettività non è un investimento e non è o non dovrebbe essere soggetta a calcoli o a previsioni ma dovrebbe essere istintiva e libera, l’unico parametro che possa guidarla è una risposta altrettanto istintiva e libera da parte del o della partner. L’affettività mira all’incontro di due persone, a un contatto emotivo profondo, al sentirsi in due di fronte ad ogni eventualità che la vita ci possa presentare.

È idea comune che l’affettività miri alla costruzione di una relazione sessuale, se questa è certamente una possibilità, non è comunque l’unica e non esaurisce in ogni caso il senso dell’affettività che si può provare anche verso un animale o verso una persona per la quale non si prova nessuna attrazione sessuale. Si sente spesso una domanda: “Ma è possibile una sessualità senza dimensione affettiva?” Non ci sono ragioni oggettive per dire che sia impossibile, ma la sessualità senza una dimensione affettiva, ammesso che esista, non è certamente la forma di sessualità più gratificante, proprio perché manca della dimensione di coppia.

Non è certamente facile valutare dall’esterno se in una relazione esista o meno una dimensione affettiva e l’apparenza, in questi ambiti, fornisce spesso immagini non corrette della situazione reale, tanto che l’eccesso di parole e di dichiarazioni di coinvolgimento affettivo nasconde spesso una sostanziale indifferenza, mentre non è affatto detto che la scarsa visibilità di manifestazioni esterne di sentimenti sia indice di una mancanza sostanziale di quegli stessi sentimenti.

Il conflitto tra la realtà e l’apparenza porta spesso alla riduzione della realtà a sola apparenza ed avvalora l’idea che ciò che si vede esiste e ciò che non si vede non esiste, idea certamente valida per i fenomeni fisici ma non per i sentimenti che spesso non amano dare spettacolo di sé.

Quando una relazione affettiva è esternamente visibile è inevitabilmente soggetta al giudizio del pubblico che la giudica non solo a partire dalle apparenze ma con criteri sostanziali assolutamente soggettivi ai quali si dà una veste di presunta oggettività. Un giudizio, appena formulato, apre una discussione e, se trova consenso, viene assunto come giudizio “giusto”. In questo modo le interpretazioni false diventano vere, i fatti mai accaduti diventano certezze acclarate e le motivazioni più irrealistiche si danno per scontate sulla base del sentito dire.
Purtroppo i giudizi, se negativi, comportano una sanzione e così accade anche per i giudizi di tipo sociale. Un giudizio socialmente accettato, vero o falso che sia, viene assunto per vero e esplica tutto il suo potere sanzionatorio nei confronti della persona cui si riferiscono i fatti e le motivazioni oggetto di giudizio. Le sanzioni sociali più comuni sono l’emarginazione e l’esclusione sociale, l’essere additati come persone strane, o addirittura malfamate o pericolose e questo apre la via dell’odio che può sfociare in aggressioni e violenza fisica.

Il giudizio sociale sulle relazioni non monogamiche o sulle relazioni aperte è, pressoché sempre, almeno astrattamente, aprioristicamente negativo perché nelle questioni nelle quali esiste una risposta a priori socialmente accettata, si usa mettere il cervello in stand by ed accettare la risposta che va per la maggiore seguendo un criterio di omologazione anche quando si dovrebbe avere una autentica autonomia di giudizio. È bene chiarire che un giudizio autonomo, non è un giudizio esente da costrizione nell’applicazione di un criterio standard, ma è un giudizio divergente, ossia basato su criteri di valutazione non standard. Il giudizio divergente è incompatibile con l’omologazione e può esistere solo in società abituate non soltanto all’assenza di costrizioni ma alla molteplicità dei criteri di valutazione.

Il pensiero divergente, nel mondo scientifico, apre la strada a nuovi orizzonti e a territori inesplorati, in una dimensione sociale è il lievito della libertà e del progresso. Il livello di sviluppo di una società è certamente correlato con la libertà riconosciuta al pensiero divergente e con il credito che ad esso viene attribuito. Pensiero divergente e libertà morale sono in qualche modo sinonimi. L’omologazione è il contrario del pensiero divergente. La caratteristica fondante del pensiero divergente è una sola: il pensiero divergente tende sempre ad aumentare lo spazio della libertà e ad allargare l’autonomia della coscienza. Di fronte al pensiero divergente ogni stereotipo appare fragile, perché tutte le affermazioni di principio possono essere sottoposte a critica. Il pensiero divergente non sostituisce un codice morale ad un altro ma evidenzia la fragilità dell’assumere per assoluto, naturale, ovvio, qualsiasi codice morale.

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